Insomma, un pot-pourri di falsi miti brontëani smantellati da tempo. Forse l’apice del cattivo gusto arriva alla scena finale in cui, rivelando di Weightman a Charlotte, Emily le ispira Jane Eyre, mentre Charlotte chiede a Emily morente: “Perché hai scritto un libro così brutto?”. Interventi odiosi se non fossero surreali.
Limitandoci a quel che Emily ci ha lasciato, un romanzo unico e vertiginoso, non è forse inutile ripetere che Wuthering Heights non è un frutto autobiografico, né un fiore distorto cresciuto all’ombra di figure maschili (che non siano Byron o gli eroi di Scott), o concepito in segregazione assoluta. Imprescindibile per la genesi e la comprensione del romanzo – ché la felicità dell’adesione a una scrittura è già altro – resta la vitalità dei piccoli Brontë, i racconti fantastici ascoltati la sera nella cucina di Tabby. L’adesione incenerisce ogni differenza e travalica, senza più volerli forzare, i molti misteri della vita di Emily e della casa che lei ha chiamato Wuthering Heights. Dobbiamo usare umiltà e restituirglieli.
Il vincolo d’affetto stringerà sempre tutti i Brontë, malgrado tutto, fino alla fine. Nel soggiorno della canonica, se ci concentriamo, riusciamo a vedere ancora quattro teste di bambini, due e due, chine sul tavolo con le loro fiammeggianti fantasticherie, riusciamo a sentire i pennini che grattano la carta e poi, le figure diventate tre, a sentire i passi di Charlotte, di Emily e di Anne risuonare in cerchio intorno a quel tavolo, i piccoli piedi che battono piano sul pavimento di pietra.
Sono “tre sorelle”: forte e strana e particolare, Emily non sarà mai sola.
(Translation)
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