Se negare la possibilità di scrivere, l’autorialità, la stessa identità sessuale o sanità mentale, non fosse bastato, spiega Joanna Russ, allora subentrava un altro elemento: l’opera di una donna è immorale o dice il falso. George Henry Lewes, pur amico e sostenitore delle romanziere, recensì negativamente Shirley di Charlotte Brontë, perché il personaggio di Mrs Pryor abbandona il figlio (che, nel testo, assomiglia al padre odiato e perverso). Per Lewes una donna non potrebbe mai farlo (un uomo sì e questo non lo renderebbe peggiore, ovvio). Ovvero, gli uomini hanno preteso di sapere sempre che cosa pensavamo, credevano, sognavano, amavano e facevano le donne. Charlotte gli rispose, ironica: «Con amici simili, chi ha bisogno di nemici?». Il paradosso fra l’altro è proprio questo: continuiamo a ritenere archetipi universali personaggi femminili inventati da uomini come Anna Karenina ed Emma Bovary senza mai chiederci: ma davvero le donne sono così? E perché alle scrittrici non viene riconosciuto la stessa capacità di sapere che cosa alberga nella mente e nel cuore di un uomo? E poi davvero le categorie che gli uomini hanno appiccicato alle donne, belle e consapevoli di esserlo (quale donna si sente davvero bella?), sottomesse, perfide, votate al sacrificio per i figli, peccatrici senza rimorsi o insanabili devote come Lucia Mondella, sono categorie reali? E quelle virili-guerresche-violente-creatrici che hanno attribuito invece a sé stessi sono anch’esse realistiche? Ciò che è ancora più assurdo è che i critici letterari, i biografi e gli storici maschi hanno spesso ritenuto “falso” ciò che una donna raccontava perché loro non ne avevano avuto esperienza. Ma addirittura, ignorando dati evidenti, per esempio, l’omosessualità di una scrittrice, hanno sparato giudizi sul fatto che la sua opera fosse chiaro frutto della sua amarezza di zitella o della tristezza di non essere madre.
(Valeria Palumbo) (Translation)
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